“Achtung Baby” e la redenzione dell’eros
«Don’t believe what you hear / Don’t believe what you see / If you just close your eyes you can feel the enemy»
è l’incipit di Acrobat, penultima traccia di Achtung Baby, un gioiello inspiegabilmente trascurato dagli stessi U2, che hanno aspettato oltre 25 anni prima di proporla dal vivo.
Ma chi è il nemico di cui sta parlando Bono? Si tratta di qualcuno la cui presenza di può percepire chiudendo gli occhi, non è quindi un nemico esterno, ma si trova dentro di sé. Andando avanti nella canzone, Bono dichiara di sentirsi come un «acrobata», costretto a «parlare in un modo e agire in un altro». Forse qui il cantante sta denunciando la propria incoerenza, l’incapacità di essere all’altezza degli alti ideali più volte proclamati nel corso del primo decennio della sua carriera. Questa dichiarazione mi richiama alla mente un passo di san Paolo, nella lettera ai Romani, in cui l’apostolo afferma «io non compio il bene che non voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In entrambi i casi siamo posti di fronte a una scissione interiore, che rende incapaci di vivere in conformità a un bene/ideale riconosciuto e desiderato. Ecco che, allora, Acrobat si presenta come l’ammissione di una crisi esistenziale che provoca un senso di disorientamento, una perdita di punti fermi nei diversi ambiti della propria vita: quello affettivo («when I first met you girl, you had fire in your soul / What happened your face of melting snow?»), quello politico («And I’d join the movement / If there was one I could believe in») e, infine, quello religioso («Yeah, I’d break bread and wine / If there was a church I could receive in/‘Cause I need it now»). È significativo poi il fatto che in un’altra canzone del disco, che richiama uno scenario evangelico, Bono si identifichi con la figura di Giuda Iscariota. Stiamo parlando ovviamente di Until The End Of The World, un brano che presenta a sua volta atmosfere cupe e drammatiche, in cui si intuisce che il “tu” a cui si rivolge il cantante è Gesù, anche se non viene mai nominato esplicitamente, e il contesto è quello dell’ultima cena, fino al celebre bacio che sancisce il tradimento: «In the garden I was playing the tart/I kissed your lips and broke your heart/You, you were acting like it was the end of the world». Il bacio di Giuda era stato già menzionato da Bono in una canzone degli anni ’80, Pride, ma lì l’identificazione era con Cristo, non con il traditore come avviene in questo caso. Questo rovesciamento di prospettiva dice molto sulla svolta attuata dagli U2 in Achtung Baby, rispetto ai lavori del decennio precedente. L’altro elemento da sottolineare è la coloritura erotica che viene data alla scena: Giuda bacia il maestro sulle labbra e si paragona a una puttana; in precedenza aveva dichiarato che, nel cenacolo, lui e Gesù erano «vicini come moglie e marito». Queste sfumature erotiche, più che un’allusione all’omosessualità, sembrano voler creare un gancio con quello che è il tema principale del disco, ovvero il fallimento dell’amore di coppia. Come è noto, la crisi matrimoniale attraversata da Edge, che lo aveva portato alla separazione dalla moglie, influì pesantemente sulle tematiche e sulle atmosfere dell’album (lo ha ribadito lo stesso chitarrista degli U2 in un recente intervento come ospite nel canale Instagram di Tom Morello). Gran parte delle canzoni di Achtung Baby, di fatto, ruotano attorno al tema di un amore che riesce a mantenere le sue promesse, un amore a cui si domanda salvezza, ma che appare sfuggente ed effimero («Who’s gonna ride your wild horses?/Who’s gonna take the place of me?»), lontano («Gonna run to you, run to you, run to you; be still/Gonna run to you, run to you, woman, I will»), contraddittorio («I disappeared in you/You disappeared from me/I gave you everything you ever wanted/It wasn’t what you wanted»), tormentato («Did I disappoint you or leave a bad taste in your mouth?/You act like you never had love and you want me to go without»), incapace di dare appoggio («A man will rise/A man will fall/From the sheer face of love/Like a fly from a wall»), dispensatore di morte invece che di vita («Love is blindness, I don’t want to see/Won’t you wrap the night around me?/Oh my love/Blindness/A little death without mourning/ No call and no warning/Baby, a dangerous idea/That almost makes sense»). Nonostante questo, il cantante sembra non poter fare a meno di continuare a chiedere all’amore la luce, sa che non può cercare la sua redenzione altrove: «You know I need you to be strong/And the day it is dark, as the night is long/Fell like trash, you make me feel clean/I’m in the black, can’t see or be seen/Baby, baby, baby, light my way».
Possiamo chiederci, a questo punto, se Achtung Baby sia soltanto questo, un viaggio in mezzo alla tempesta emotiva di chi vive amori tormentati oppure se, attraverso la tempesta, esso ci indichi anche un lido a cui approdare. Per rispondere a questa domanda dobbiamo soffermarci su due brani che hanno, a mio avviso, un ruolo chiave nell‘illuminare di senso l’orizzonte complessivo dell’album.
Il primo brano è Even Better Than The Real Thing: qui il cantante dichiara di voler volare libero, insieme alla sua amata, in un cielo cremisi, di notte, quando il sole non potrà sciogliere le ali. L’allusione è chiaramente al mito di Icaro ma, se volessimo esprimere il concetto con categorie bibliche, potremmo leggere questa salita al cielo come il desiderio di un ritorno nell’Eden primordiale, una condizione nella quale l’uomo e la donna non si vergognavano della propria nudità, ovvero vivevano un amore puro, libero e innocente. Le ali che permettono questo volo sono quelle dell’eros umano, resosi autonomo da Dio (simbolicamente tramontato con il sole). La felicità dell’uomo sta dunque semplicemente nel lasciarsi trasportare sulle ali dell’eros? Il titolo-ritornello della canzone suggerisce che in tutto ciò vi sia una qualche ambiguità: è questo l’amore autentico, reale, oppure un suo surrogato, una finzione? Lo svolgimento del disco, con i brani che abbiamo citato sopra, ci fa propendere verso la seconda ipotesi: il volo di eros sembra interrompersi e fallire miseramente.
Arriviamo allora al secondo momento cruciale, costituito dalla canzone Mysterious Ways che ritengo contenga in sé la risposta alle domande irrisolte e alle inquietudini che percorrono Achtung Baby. Si tratta, bisogna dirlo, di una risposta tutt’altro che evidente e immediata: essa arriva in forma allegorica, in un brano apparentemente leggero e di passaggio, il cui titolo stesso evoca la dimensione del mistero: non è più, per gli U2, il tempo dei proclami altisonanti, delle certezze gridate; la verità può essere colta attraverso un percorso tortuoso e accidentato, e non si impone in modo evidente ma, tutt’al più, ci concede dei barlumi, dei momenti di grazia che dobbiamo saper riconoscere e custodire. Il testo della canzone ha una genesi del tutto particolare: esso nasce dalla rielaborazione di un lavoro teatrale di Oscar Wilde intitolato “Salomé”, che era a sua volta un’interpretazione del racconto evangelico del martirio di Giovanni Battista. Il fatto curioso è che Bono rovescia il ruolo dei protagonisti della vicenda (nella fattispecie Giovanni Battista, che qui diventa Johnny, e Salomé, la danzatrice figlia di Erodiade, qui non menzionata per nome). L’eroico profeta evangelico diventa, nella canzone, un uomo che ha smarrito se stesso; se vogliamo, una sorta di profeta decaduto (esempio emblematico di come Bono percepisse se stesso in quel periodo). La danzatrice, che nel racconto evangelico e in quello di Wilde è la causa della morte di Giovanni, diventa invece nella canzone una figura salvifica. A lei viene chiesto, infatti, di «elevare i giorni e illuminare le notti» e, nella strofa finale, si afferma che ella si muove con lo spirito finché, quasi impercettibilmente, una seconda voce di Edge canta che «lo spirito di muove in modi misteriosi», parafrasando una frase che si trova nel testo di Wilde, dove si dichiara: «God moves in mysterious ways». Alla luce di questi indizi che abbiamo raccolto giungiamo ad affermare che la donna danzante possa essere qui interpretata addirittura come un’allegoria dello Spirito Santo. Interpretazione troppo azzardata? Ci sono ulteriori elementi a sostegno di questa ipotesi. Nell’esecuzione dal vivo del brano, contenuta nel filmato “Live in Sidney” del ’93, sul palco è presente una donna che danza e, nel momento in cui Bono canta la frase «if you want to kiss the sky, better learn how to kneel», si inginocchia congiungendo le mani nel modo che richiama inequivocabilmente la preghiera; successivamente, il cantante si protende verso di lei, cercando di sfiorarla con il dito, dando ad intendere che quel contatto significherebbe per lui sollievo e salvezza. Se dunque in Even Better Than The Real Thing erano le ali di eros a far volare l’uomo e la donna verso il cielo, ma quel tentativo era fallito, ora è il cielo a scendere verso l’uomo, sotto forma di una donna che è incarnazione dell’amore di Dio. In altri termini, ciò che eros, amore ascendente, da solo non riusciva a realizzare, ora diventa possibile grazie ad agape, amore discendente (che, in altri termini, potrebbe anche essere inteso come l’eros di Dio). L’allegoria utilizzata da Bono trova un appoggio nel fatto che la Bibbia descrive spesso lo spirito di Dio utilizzando caratteristiche femminili e ciò in conseguenza del fatto che la parola ebraica “ruah” (“spirito”) è proprio di genere femminile. Il fatto che il ruolo divino sia qui impersonato in una figura femminile (e non si può fare a meno di pensare a una qualche analogia con la Beatrice dantesca) è ovviamente tutt’altro che privo di significato. L’idea che ne possiamo ricavare è quella di un incontro e di un’integrazione tra le due dimensioni dell’amore: erotica e agapica, ascendente e discendente, carnale e spirituale. Il linguaggio di Dio è quello dell’amore, e si manifesta dentro l’esperienza umana dell’amore. Dio non è nemico dell’eros, e l’eros non è un ostacolo all’incontro con Dio, ma l’eros umano da solo non basta, ha bisogno di accogliere un amore che discenda dall’alto e gli permetta di elevarsi.
Nella poetica di Bono, spesso l’amore della donna e per la donna e l’amore di Dio si intrecciano e si sovrappongono. Quando noi lo sentiamo cantare «You ask me to enter, buy then you make me crawl» ci viene naturale pensare che l’interlocutrice sia una donna, ma nelle esecuzioni dal vivo degli anni ’90 aggiungeva una strofa dove l’interlocutore diventava Dio: «Hear me coming, Lord/Hear me call/Hear me knocking, knocking at your door/Hear me coming, Lord/Hear me call/Hear me knocking, will you let me crawl?». L’amore, in fin dei conti, è uno e si può continuare a chiamarlo, a desiderarlo, a sperare in una sua risposta, perché esso scaturisce da una sorgente eterna.
Articolo a cura di Fra Federico Russo
Foto in evidenza © Anton Corbijn — U2 in Marocco – 1991
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