“All That You Can’t Leave Behind”: quando Bono rilesse san Paolo
“Mi sembrò il momento di realizzare un album sui valori essenziali della vita”,
ha dichiarato Bono a proposito di All That You Can’t Leave Behind, decimo album in studio degli U2.
La vita del cantante, giunto allora alla soglia dei quarant’anni, era stata scossa da una serie di avvenimenti non facili da metabolizzare: al padre Bob era stato diagnosticato un cancro, che in non molto tempo lo avrebbe portato alla morte; l’amico Michael Hutchence, cantante degli INXS, si era tolto la vita nel novembre del ‘97; lo stesso Bono era finito in sala operatoria per un rigonfiamento alla gola che aveva fatto temere il peggio (problema che poi si rivelò fortunatamente non così grave). A fare da contraltare a queste vicende poco liete ci fu la nascita, nell’agosto del ’99, di Elijah, terzogenito della famiglia Hewson. Gioie e dolori portarono il cantante a riflettere sul mistero della vita, preziosa ma fugace, sul tempo che scorre portandosi via molto di ciò a cui teniamo. L’età di mezzo è quella in cui si è portati naturalmente a fare un primo bilancio della propria esistenza e, dopo gli anni forsennati in cui la parola d’ordine era sperimentare il più possibile, giungeva il tempo di fermarsi un momento e chiedersi cosa valesse la pena di portare con sé per affrontare la seconda parte del viaggio:
“And love is not the easy thing / The only baggage you can bring / Is all that you can’t leave behind”.
Sono i versi iniziali di Walk On, il cui senso è stato così spiegato da Bono in un’intervista:
“L’amore, nel senso più alto del termine, è la sola cosa che possiamo portare sempre con noi, dentro il nostro cuore. Tutto il resto lo dovremo comunque perdere, a un certo punto. C’è un passo della Lettera ai Corinzi che usa l’immagine di una casa sottoposta alla prova del fuoco, e sembra suggerire che quando, al momento della morte, dovremo affrontare il giudizio finale (o l’esame, come traducono alcuni) tutto quello che sarà fatto di paglia e legno verrà bruciato, solo ciò che è eterno sopravviverà. Perciò alla fine della canzone c’è una litania di ambizioni e di conquiste. “You’ve got to leave it behind / All that you fashion / All that you make /All that you build / All that you break (…)” è un vero e proprio mantra, un falò delle vanità, si può gettare nel fuoco tutto quello che si vuole. Qualsiasi cosa si desideri più dell’amore, deve sparire” (Bono, U2 by U2, 295-296).
Il brano paolino menzionato da Bono è 1Cor 3,10-15 e recita così:
“Ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito”.
Un po’ più avanti, uscendo dalla metafora, Paolo rende più chiaro il suo pensiero:
“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà (…) Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (1Cor 13,8.13).
Mettendo insieme questi due testi della lettera ai Corinzi possiamo ritrovarvi esattamente il concetto espresso da Bono. L’amore di cui parla Paolo, in virtù della ricchezza semantica della lingua greca, viene declinato come agape, che indica l’amore che Cristo ha vissuto e insegnato, testimoniandone l’origine divina. Bono non utilizza la parola “charity“ (che la Bibbia inglese usa per tradurre il greco agape, ma che nel linguaggio contemporaneo assume generalmente il senso riduttivo di compiere opere di beneficenza), preferendo la più omnicomprensiva “love“; il contesto della canzone, tuttavia, lascia intendere che siamo nell’orbita del significato paolino della parola. Non è amore in senso romantico, ma è l’atteggiamento di chi sa lottare, sacrificarsi, soffrire per la giustizia e il bene comune. Come è noto, gli U2 hanno dedicato la canzone ad Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, che all’epoca era leader del movimento di opposizione al regime militare birmano (e oggi è Consigliere di Stato dall’operato politico molto controverso, ma questa è un’altra storia).
Echi del pensiero di paolino affiorano a più riprese nelle canzoni di All That You Can’t Leave Behind, segno che Bono, in quel periodo, doveva essersi interessato particolarmente alle Lettere dell’apostolo. A Paolo dobbiamo la prima divulgazione del concetto teologico di grazia.
“Ti basta la mia grazia; la forza si manifesta pienamente nella debolezza”
è il messaggio che Paolo afferma di aver ricevuto da Dio (2Cor 12, 9) dopo avergli chiesto di essere liberato da una misteriosa “spina nella carne”. Egli deve accettare di convivere con le proprie fragilità riconoscendosi destinatario, senza merito, dell’incondizionata benevolenza divina. La dottrina su cui l’apostolo ritorna a più riprese è che l’uomo non si salva operando unicamente in base alla propria forza morale, ma accogliendo la salvezza come dono gratuito che Cristo elargisce ai peccatori (cfr. Gal 3).
Il tema della grazia viene presentato da Bono sotto forma di allegoria:
“Grace, it’s the name for a girl / It’s also a thought that changed the world”.
La figura femminile che cammina per la strada rimanda quindi a quel “pensiero che ha cambiato il mondo”, ovvero al concetto teologico che, come abbiamo visto, è stato introdotto da Paolo nella riflessione cristiana. In cosa consiste l’azione della grazia secondo Bono?
“What once was hurt / What once was friction / What left a mark / No longer stings / Because Grace makes beauty out of ugly things”.
Si tratta, in sostanza, di una guarigione, di un riportare la bellezza laddove essa era andata perduta. Il cantante lo ha spiegato in un’intervista:
“Il ministero di Cristo aveva davvero molto a che fare con il mettere in evidenza il fatto che tutti in un modo o nell’altro sono dei casinisti, non c’è scampo. Ma poi Egli diceva: “Mi occuperò io dei tuoi peccati al posto tuo. Prenderò su di me tutte le conseguenze dei peccati”. Anche i non credenti penso ammettano che tutti gli sbagli che si fanno generano conseguenze. Ed è qui che entra in scena la Grazia, dicendo: “Me ne assumerò io la colpa, porterò la croce al posto tuo!”.” (Bono, U2 by U2, 300-303).
Questo corrisponde esattamente all’idea paolina di grazia.
Lo stesso tema era stato introdotto, in altra forma, nella traccia iniziale dell’album, Beautiful Day, che forma così insieme a Grace una cornice inclusiva:
“The heart is a bloom, shoots up through the stony ground / But there’s no room, no space to rent in this town / You’re out of luck and the reason that you had to care, / The traffic is stuck and you’re not moving anywhere. / You thought you’ve found a friend to take you out of this place / Someone you could lend a hand in return for grace. / It’s a beautiful day, the sky falls / And you fell like it’s a beautiful day”.
Il protagonista della canzone, metaforicamente bloccato nel traffico, vorrebbe essere portato fuori dalla situazione in cui si trova, esprimendo così un desiderio di salvezza. Questa salvezza in qualche modo arriva, portando a proclamare, nel ritornello, la bellezza di ciò che si sta vivendo. Si tratta, evidentemente, di una bellezza paradossale, non data dal fatto che ogni cosa sta andando bene; è una bellezza che germoglia dentro i limiti, le imperfezioni, forse anche i fallimenti della vita. La chiave di tutto la troviamo nel bridge della canzone, dove il protagonista si trova, misteriosamente, a guardare il mondo dall’alto, come se fosse un astronauta nello spazio (“See the world in green and blue..”). Qui compare anche il riferimento simbolico alla colomba di Genesi 8, 10-11 (“The bird with a leaf in her mouth”): è il racconto della fine del diluvio, letto dalla tradizione cristiana come prefigurazione della salvezza operata da Cristo per mezzo del battesimo. In questo essere portato in cielo poi, se vogliamo, è possibile scorgere un’altra analogia con il racconto di Paolo, il quale proprio in 2Cor 12,2, all’interno dello stesso testo che abbiamo citato poc’anzi, afferma essere stato rapito da Dio “fino al terzo cielo”, metafora che indica un’esperienza mistica. Una simile interpretazione può essere data anche al testo della canzone: si tratta di riuscire a guardare il mondo dal cielo, ovvero dal punto di vista Dio. La grazia quindi, secondo questa idea, non opera trasformando la realtà che ci circonda, ma trasforma il nostro modo di guardare a essa.
Lo stesso tema lo ritroviamo anche in un altro brano:
“When you look at the world / What is it that you see? (…) So I try to be like you / Try to feel it like you do / But without you it’s no use / I can’t see what you see / When I look at the world / (…) I’m in the waiting room / Can’t see for the smoke / I think of you and your holy book / While the rest of us choke / Tell me, tell me, what do you see?”.
Il cantante riconosce qui di non riuscire a vedere bene ed esprime il desiderio di poter vedere la realtà come la vede l’altro, che qui probabilmente è Cristo. Il Nuovo Testamento presenta a più riprese l’esperienza della fede come un passaggio dalla cecità al vedere e lo stesso Saulo di Tarso, al momento della sua conversione, viene reso cieco per tre giorni; è un segno che rende manifesta la sua incredulità, per cui la sua rinascita alla fede coincide con il recupero della vista, che significherà anche la capacità di guardare la realtà con occhi nuovi (cfr. At 9).
Un’altra eco del pensiero paolino la possiamo trovare in Kite, uno dei brani più belli del disco, laddove il cantante afferma:
“Something is about to give / I can fell it coming / I think I know what it means / I’m not afraid to die / I’m not afraid to live / And when I’m flat on my back / I hope I feel like I did”.
L’affermazione “Non ho paura di morire / Non ho paura di vivere” ne richiama un’altra, analoga, che Paolo fa nella lettera ai Filippesi:
“Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,21).
La fede cristiana conduce a non avere paura della morte, perché in essa non vede la fine di tutto, ma il passaggio alla vita eterna; nello stesso tempo, questo non comporta una fuga dal mondo, un disinteresse per le vicende di questa vita. E’ bene rimarcare che queste analogie tra i testi di Bono e quelli di Paolo non sono necessariamente, in ogni circostanza, consapevoli e volute. Abbiamo tuttavia più di un indizio che ci porta a sostenere che “l’ultima delle rockstar”, nella scrittura di questo disco, si sia ispirata, in qualche misura, al pensiero dell’apostolo delle genti. La differenza è che in Paolo il cristocentrismo è molto più esplicito, mentre Bono tende prevalentemente a lanciare allusioni o segnali da decifrare. D’altra parte, già nella copertina dell’album era presente un messaggio in codice: la sigla J 33-3, visibile sullo sfondo della sala dell’aeroporto nella quale si trovano i nostri quattro, è la citazione di un versetto di Geremia.
Vi è un brano, nell’album, dove invece Bono sceglie di essere più esplicito, menzionando Gesù. Si tratta di Peace On Earth, canzone che si riferisce a un attentato compiuto dall’IRA nell’agosto del ’98, a causa del quale morirono diversi civili. Gli U2 tornano quindi ad affrontare un tema sul quale si erano già espressi a più riprese, da Sunday Bloody Sunday in poi. Davanti a un’altra tragedia, l’ennesima di un conflitto che appariva interminabile, Bono ha scritto questi versi:
“Jesus could you take the time / To throw a drowing man a line / Peace on Earth / Tell the ones who hear no sound / Whose sons are living in the ground / Peace on Earth”.
Il retroterra biblico di riferimento in questo caso non va cercato nei testi paolini, ma piuttosto nel Libro dei Salmi. Sebbene si rivolga a Gesù, infatti, Bono qui fa proprio il tono imprecatorio che caratterizza alcune parti del salterio, quelle che, come ha scritto lo stesso cantante degli U2, assomigliano più al blues che al gospel, lasciando trasparire un modo di rapportarsi a Dio fatto di “onestà fino alla collera”, come il Sal 89:
“Fino a quando, Signore, continuerai a nasconderti?”
e il Sal 5:
“Porgi orecchio al mio grido” (cfr. Bono, Introduzione al libro dei Salmi, Einaudi 1999).
Peace on Earth diventa l’espressione di una fede tormentata e messa alla prova, che si esprime nella rabbia e rasenta quasi la disperazione, facendo da contrappunto alle atmosfere più luminose e rappacificate che caratterizzano buona parte del disco.
All That You Can’t Leave Behind è stato un album di grande successo dal punto di vista commerciale, magari non particolarmente innovativo a livello musicale, ma dotato di una profondità spirituale che deriva, qui come in altri casi, dalla frequentazione assidua dei testi biblici da parte di Bono.
Articolo a cura di Fra Federico Russo
Foto in evidenza [Cover “All That You Can’t Leave Behind”] © Anton Corbijn
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