LE COVER DI Q: UN’OPINIONE
IN DREAMS BEGIN RESPONSIBILITIES
Di Andrea Morandi *
Critico musicale e autore di U2 – The Name Of Love (Arcana)
Dopo settimane di attesa finalmente ecco arrivate le dodici cover di Achtung Baby organizzate dal mensile Q per il ventennale. Ma è davvero quello che aspettavamo?
Alla fine, una dopo l’altra, iniziando da Jack White e finendo con Patti Smith, sono arrivate le dodici reinterpretazioni dei brani di Achtung Baby che il mensile inglese Q ha fatto registrare per celebrare il ventennale del disco degli U2. Prima di spiegarvi la mia opinione in merito, una premessa d’obbligo: non sono un purista, non lo sono mai stato, né mai lo sarò. Non sono dell’opinione che solo Bono possa cantare le canzoni degli U2 e nemmeno che senza la chitarra di Edge quei pezzi smettano di essere grandi. Anzi. In questi anni ho ascoltato grandi cover fatte da artisti sconosciuti (Elvis Presley and America di Jullian Angel) oppure da cantanti molto famosi (Elvis Costello su Please) e continuo a cercare reinterpretazioni che mi facciano spostare il punto di vista su canzoni che ho imparato a conoscere a memoria. Amo perfino le versioni strumentali per piano o per archi, quindi non posso essere accusato di essere un purista. Perché questa lunga premessa? Perché, ora posso dirlo, il disco di Q mi ha deluso e, onestamente, non me lo aspettavo visto che ero pronto ad abbracciare il risultato qualsiasi esito finale avesse raggiunto. Troppe versioni simili, troppi rifacimenti senz’anima, troppe canzoni ricopiate e risuonate in stile karaoke. Che senso ha suonare dei classici esattamente come sono stati concepiti? Nessuno. A molti non è piaciuto Jack White e la sua Love is Blindness, a me invece è una di quelle versioni che ha colpito di più, perché dentro si sente la disperazione del pezzo. Non ho capito invece il senso di pezzi come Acrobat, rifatta male da una band che solitamente adoro (i Glasvegas), di Until the end of the world, rifatta banalmente da un’artista capace di essere (quasi) sempre irraggiungibile (Patti Smith), o di Tryin’ To Throw Your Arms fatta dai Fray. Non che siano brutte, ma sono semplicemente inutili, non danno nulla, non offrono niente. Salvo completamente i Depeche Mode, bella la loro So Cruel, ti arriva addosso come un pugno alla mascella, e anche Damien Rice che porta One alla disperazione, mentre sia Trentz Reznor con la sua Zoo Station che Gavin Friday con The Fly non hanno fatto altro che portare a casa il risultato con lo sforzo minimo di un suono (il loro) che conoscevamo. Killers, Snow Patrol e Garbage? Le loro Ultraviolet, Mysterious Ways e Who’s gonna ride your wild horses rimangono in aria per qualche minuto, poi viene semplicemente voglia di spararsi a tutto volume gli originali. A questo punto mi chiederete cosa cerco in una cover. Facile: l’imprevisto, l’inaspettato, qualcosa di quel pezzo che nemmeno chi l’ha scritto è riuscito a cantare o a percepire, un frammento di verità rimasto sepolto tra accordi e note. Un esempio? Andate a ripescarvi qui (www.youtube.com/watch?v=K7WicNMm_8I) Love is Blindness rifatta dall’interprete angolano Waldmar Bastos: so già che alcuni (molti) di voi inorridiranno, eppure a me quella canzone degli U2 trasformata in un fado dolente, fa percepire proprio l’enorme bellezza senza tempo di una canzone destinata all’immortalità. Ecco cosa cerco da una cover.
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