Bono, gli U2, e il libro di Qohelet
In occasione del 60° compleanno di Bono, riceviamo e condividiamo con grande piacere un interessante approfondimento a cura di Fra Federico Russo (che ringraziamo), già autore del libro “One. Un modo per avvicinarsi a Dio. Gli U2 tra rock e Bibbia“, sul rapporto tra gli U2, i testi di Bono, e il libro di Qohelet, presente nella Bibbia.
Bono, gli U2, e il libro di Qohelet
La canzone Miss Sarajevo, scritta da Bono su richiesta di Pavarotti, in vista del concerto di beneficenza che il tenore aveva messo in programma nella sua Modena (il celebre «Pavarotti and friends»), offre lo spunto per approfondire il legame di dipendenza che la poetica del cantante degli U2 ha nei confronti del testo biblico. Sa da un lato il testo di Miss Sarajevo prende spunto dalle iniziative di resistenza urbana messe in atto dalla gente della città bosniaca durante i bombardamenti (tra cui il concorso di bellezza a cui si riferisce il titolo), dall’altro le strofe della canzone sono un’evidente parafrasi, attualizzata, dei primi otto versetti del capitolo 3 del libro di Qohelet, che riporto qui nella versione inglese:
«To every thing there is a season, and a time to every purpose under the heaven: / A time to be born, and a time to die; a time to plant, and a time to pluck up that which is planted; / A time to kill, and a time to heal; a time to break down, and a time to build up; / A time to weep, and a time to laugh; a time to mourn, and a time to dance; / A time to cast away stones, and a time to gather stones together; a time to embrace, and a time to refrain from embracing; / A time to get, and a time to lose; a time to keep, and a time to cast away; / A time to rend, and a time to sew; a time to keep silence, and a time to speak; / A time to love, and a time to hate; a time of war, and a time of peace».
La prima strofa della canzone, invece, recita così:
«Is there a time for keeping your distance / A time to turn your eyes away / Is there a time for keeping your head down / For getting on with your day / Is there a time for kohl and lipstick /A time for cutting hair / Is there a time for high street shopping / To find the right dress to wear».
La seconda strofa prosegue in modo analogo. L’affinità tra i due testi è dunque evidente, con la differenza che Bono ha inserito immagini legate alla vita della città bosniaca (immagini riprese da un documentario filmato dal giornalista Bill Carter). La strofa cantata in italiano da Pavarotti, a sua volta, richiama un versetto di Qohelet: «Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere» (Qo 1,7).
L’autore di questo libro della Bibbia (un libro in genere poco conosciuto e ancor meno compreso), propone quella che si può definire un’etica della quotidianità: cercare di vivere bene il tempo che ci è dato, sapendo coglierne le gioie e le opportunità, nella consapevolezza dei limiti e della precarietà dell’esistenza umana. «Tutto è soffio» ripete più volte l’autore (oppure «tutto è vanità», secondo una traduzione che riprende la versione latina ma è meno fedele al termine ebraico hebel). La resistenza urbana della gente di Sarajevo è un segno della capacità di vivere i piccoli momenti felici della quotidianità in un contesto drammatico e difficile.
Riferimenti a Qohelet erano già presenti nell’album Zooropa. La canzone Some Day Are Better Than Others è un allusione al medesimo testo a cui fa riferimento Miss Sarajevo: «alcuni giorni sono migliori di altri» è un altro modo per dire «c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere» (Qo 3,4). L’altra canzone che attinge dal Qohelet è The Wanderer, e in questo caso è stato lo stesso Bono a spiegarlo:
«Scrissi il testo basandomi sul libro dell’Ecclesiaste [nome latino di Qohelet] dell’Antico Testamento, che in alcune traduzioni si intitola Il Predicatore. E’ la storia di uno spirito intellettuale vagabondo. Il predicatore vuole scoprire il significato della vita e così prova un po’ di tutto. Prova la conoscenza, si erudisce, legge tutti i libri, ma non basta. Prova a viaggiare, vede ogni posto possibile, ma non basta. Prova il vino, le donne e la musica, ma non basta. Tutto, dice, è vanità, vanità delle vanità, che cerca di catturare il vento. (…) E il versetto più straordinario dice: “L’uomo non ha altra felicità , sotto il sole, che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche”. Amare il proprio lavoro. Ecco il segreto. (…) Nel complesso, la chiave dell’album è imparare a convivere con l’incertezza, addirittura permettendo all’incertezza di farci da guida» (1).
La spiritualità di Qohelet, un autore anonimo che vive in un tempo di crisi politica e religiosa (probabilmente nel III sec. a.C.), e che non può più rifugiarsi nelle certezze rassicuranti delle grandi narrazioni teologiche che avevano accompagnato la storia d’Israele, è stata un punto di riferimento per Bono in quella fase della sua vita e della sua carriera. Il Dio di cui si parla in questo libro è un Dio nascosto, un Dio che non risponde alle domande esistenziali che attanagliano l’uomo. Senza avere grandi certezze a cui affidarsi, non rimane che vivere la quotidianità godendo le piccole gioie della vita: «Su mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto (…) Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole» (Qo 9,7.9) In modo analogo nel testo di Bono il vagabondo, intepretato da Johnny Cash, canta: «I went out there / In search of experience / To taste and to touch / And to feel as much / As a man can / Before he repent».
Questo atteggiamento però, sia in Qohelet che in Bono, non sconfina mai nel materialismo e nell’ateismo. L’autore biblico continua a essere un uomo in cerca di Dio, che considera le gioie della vita come dono del Creatore. Così anche il vagabondo della canzone: «Yeah I left with nothing / But the thought you’d be there too / Looking for you».
[1] Bono et al., U2 by U2, 249.
Questo tipo di spiritualità “qoheletica” caratterizza la scrittura di Bono in tutta la parte centrale della carriera degli U2, nel periodo compreso tra The Joshua Tree e Pop. Nelle canzoni della fase precedente (da Boy a The Unforgettable Fire) la fede in Dio era generatrice di certezze. In October tutte le contraddizioni e le domande esistenziali venivano risolte con una proclamazione di fede (si vedano le canzoni Gloria, Tomorrow e With a Shout). I due brani più rappresentativi degli U2 del primo periodo poi si concludevano entrambi con affermazioni apodittiche: «The real battle just begun / To claim the victory Jesus won» (Sunday Bloody Sunday), e «They took your life / They could not take your pride / In the name of love» (Pride). E’ significativo il fatto che Bono, con queste canzoni, lasciasse l’ascoltatore sempre con in mano una certezza; per quanto la realtà presentasse elementi drammatici e potenzialmente destabilizzanti, alla fine c’era sempre una parola risolutiva che, in qualche modo, rassicurava.
The Unforgettable Fire in realtà aveva già iniziato a mostrare i segni di un approccio diverso, ma la svolta determinante avviene con The Joshua Tree, e in particolare con la canzone che, in quell’album, affronta più direttamente la questione della fede. Stiamo parlando ovviamente di I Still Haven’t Found What I’m Looking For, la cui parte finale manifesta in modo inequivocabile il cambio di rotta di Bono. Se prendiamo in esame l’ultima strofa, troviamo dapprima quella che appare, a tutti gli effetti, come una manifestazione di fede: «You broke the bonds and you loose the chains / Carried the cross of my shame, of my shame / You know I believe it». Questa proclamazione però subito dopo viene, se non contraddetta, almeno controbilanciata, dal ritornello finale: «But I still haven’t found what I’m looking for». In questo caso non abbiamo più a che fare con una conclusione rassicurante. Se una fede c’è (e Bono continua a dichiarare che c’è), essa non esime dal dover continuare a percorrere il faticoso sentiero del dubbio e della ricerca. E’ una fede in cui il “già” deve lasciare l’ultima parola al “non ancora”. E’ qui che la spiritualità di Qohelet si affaccia nella scrittura di Bono, per rimanere predominante durante tutti gli anni ’90. Le canzoni che affrontano il tema della fede, in questa nuova fase, si chiudono spesso con domande aperte o situazioni irrisolte. Oltre alla già citata The Wanderer possiamo menzionare Until The End Of The World («I reached out for the one I tried to destroy»); The First Time («But I left by the back door / And I threw away the key»); If God Will Send His Angels («Where do we go?»). Domande lasciate in sospeso pervadono anche le riflessioni dell’autore biblico: «Chi sa quel che è bene per l’uomo durante la sua vita, nei pochi giorni della sua vana esistenza, che passa via come un’ombra? Chi può indicare all’uomo che cosa avverrà dopo di lui sotto il sole?» (Qo 6,12).
C’è poi un ulteriore elemento che accomuna l’atteggiamento di Bono e quello di Qohelet ed è l’ironia. Un biblista, in riferimento alla sezione Qo 1,12-3,15, si è espresso così: «L’identificazione dell’autore con il re Salomone assume un aspetto senz’altro ironico: il più saggio e il più ricco re che Israele abbia mai avuto non è stato capace di godersi la vita. Da questo punto di vista l’intero libro, posto sotto la finzione salomonica, acquista il carattere di una parodia di una vera e propria sindrome regale, l’atteggiamento di “Salomone” che vorrebbe avere tutto e capire tutto»[1]. Non è difficile trovare un’affinità tra questa parodia salomonica dell’autore biblico e le parodie messe in scena da Bono durante lo ZooTv Tour, dove il “Salomone” di turno veste i panni di The Fly o MacPhisto, alter ego dello stesso cantante.
La fase “qoheletica” degli U2 si conclude idealmente con la canzone Wake up dead man, ultima traccia dell’album Pop. L’ironia e il disincanto qui lasciano il posto a un grido rabbioso e implorante rivolto a Cristo. Siamo ancora di fronte alla constatazione dell’assenza di Dio, ma adesso questa assenza non è più percepita come accettabile, come un dato di fatto con cui si possa in qualche modo imparare a convivere. Il tono pessimista e quasi rassegnato di Qohelet cede il posto alla rivolta di Giobbe, alla sfida lanciata nei confronti di Dio. Anche in questo caso Bono ci lascia in sospeso, senza risposta, ma il tono urgente e drammatico lasciano intendere che la situazione non si può protrarre a lungo. E infatti una risposta arriverà, anche se bisognerà attendere tre anni, ovvero il tempo che intercorre tra Pop e All That You Can’t Leave Behind. Si tratterà di una risposta che si presenterà soprattutto sotto forma di allegoria, nella canzone Grace, dove la figura femminile è una personificazione della grazia di Dio, capace di trovare bellezza e bontà in ogni cosa.
Anche questa risposta, però, non potrà essere ancora definitiva e Bono dovrà tornare a parlare della perdita d’innocenza, rimettendosi in cammino sulle strade dell’incertezza, alla ricerca di luci che facciano ritrovare la strada che conduce a casa.
[1] Mazzinghi L., Il Pentateuco sapienziale, 143.
(Autore del libro One, un modo per avvicinarsi a Dio. Gli U2 tra rock e Bibbia, San Paolo 2019)
Foto in evidenza © U2
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