Quarant’anni dopo, perché “Boy” è ancora rilevante
Quella roba lì ce l’hai solo a vent’anni. Puoi fingere di averla anche dopo, puoi illuderti sia così, ma non è vero. Non sarà più uguale. Niente sarà più lo stesso. A vent’anni il mondo è stato costruito per te, ogni emozione è la prima emozione, ogni passo è il primo da fare e il viaggio è ancora tutto là davanti. Colmo di promesse. Nessuna linea all’orizzonte. A vent’anni hai un cuore gigantesco che percepisce ogni battito d’ali, a vent’anni il sangue pulsa come una batteria, pompa nelle vene rabbia, sogni e gioia. Nello stesso momento.
Ecco, Boy è tutto questo, ma la cosa incredibile è che oggi sia ancora tutto questo, anche quarant’anni dopo, anche se il 1980 sembra lontano anni luce, anche se tutto sembra una fotografia in bianco e nero dimenticata in un cassetto.
Come quegli scatti di Patrick Brocklebank, come pezzi di storia che non sono mai invecchiati, le undici canzoni di Boy stanno ancora in piedi perché la verità è che a vent’anni sarai anche ingenuo e senza esperienza, ma quello che sei già lo sei. Devi solo dimostrarlo. E gli U2 erano già gli U2. Ambiziosi, potenti, imprevedibili, inetichettabili, capaci di infilare nello stesso vinile – ah sì, era un vinile – una canzone diversa da qualsiasi cosa come The Ocean, una perla di malinconia che fermava le scariche elettriche, il dolore dopo la rabbia. Perché a vent’anni ridi e piangi con la stessa intensità e ti senti vivo come probabilmente non lo sarai mai. Fuori controllo.
Ci sono molti modi oggi di (ri)ascoltare Boy e il primo è il più semplice: riascoltarlo ligi e devoti per fare un tributo alla band che sarebbe
diventata, come un omaggio da portare a capo chino al santuario degli U2. Il secondo invece è legato alla propria personale esistenza, ovvero
risentire quelle undici canzoni per ricordare il momento in cui arrivarono per la prima volta nelle nostre vite. Il terzo invece è sentire quel disco per quello che è oggi, per come suona, per capire se ha ancora senso oppure se è un oggetto da museo del Novecento, una copertina da appendere al muro e ammirare, ma che non ha più alcuna rilevanza. Stories for boys.
Ognuno darà la sua risposta, non c’è una risposta giusta, non deve esserci, quindi a ciascuno la sua. Noi diamo la nostra. Perché riascoltare
Boy oggi? Perché Boy è il fermo immagine dei vent’anni, è la forza che spinge senza direzione, è il suono di quattro ragazzi che non sanno come, non sanno perché, ma sanno che devono. Perché hanno un buco nell’anima da riempire e quel suono sparato a tutto volume pare
colmarlo, quel rumore che si fa suono sembra indicare una via di fuga, una colossale via di fuga da tutto quello che li aspetta. E allora senti
qualcosa nello stomaco e per un istante capisci che quella è la strada giusta. E la segui. E quella roba lì ce l’hai solo a vent’anni. Puoi fingere di averla anche dopo, puoi illuderti sia così, ma non è vero. Non sarà più uguale. Niente sarà più lo stesso.
Foto crediti & Immagine in evidenza © Patrick Brocklebank
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