Bono e quella domenica d’ottobre a Chiaravalle | Un ricordo
MILANO – Ci sono momenti che aspetti per una vita intera, che immagini e figuri centinaia di volte e che poi un giorno ti arrivano addosso improvvisamente, quando meno te lo aspetti. Dopo averlo ascoltato per quasi trent’anni, dopo aver amato gli U2 fino a farmi cambiare il futuro, ho conosciuto Bono una domenica d’ottobre di qualche anno fa. Lui e Edge erano a Milano per partecipare a una trasmissione televisiva e dalla redazione del quotidiano per cui lavoravo allora mi chiamarono per dirmi se potevo andare a pranzo con loro. Non era una semplice intervista, ma un pranzo. La notte prima non riuscii quasi a prendere sonno. Pensavo a chi dice che sarebbe meglio non conoscere mai i propri miti, per non rimanerne profondamente delusi: nessuno può essere migliore dell’idealizzazione che ne si fa, nessuno può essere all’altezza di quell’aspettativa.
Poche ore dopo mi trovai a Chiaravalle, poco fuori Milano, seduto al tavolo di una locanda che si trova proprio dietro all’abbazia, ad aspettare Bono. Aspettarlo, quasi come si aspetta un amico per un pranzo domenicale. Appena arrivò, abbracciò uno per uno i giornalisti – eravamo in quattro – e cercò subito di mettere tutti a proprio agio facendo battute sulla bontà del cibo italiano: «Siete fortunati che stasera abbiamo un programma da registrare altrimenti starei qui tutto il pomeriggio a mangiare e bere». Poi andò in onda il Bono show: rimasi per quasi due ore a ascoltarlo parlare di Irlanda e William Blake, dei ricordi e del futuro. Pensavo che, a un certo punto, uscisse la rockstar pomposa pronta a pontificare, invece a un certo punto si mise addirittura in piedi a fare l’imitazione di Pavarotti che cercava di far mangiare formaggio agli U2 in un elicottero sopra Sarajevo e poi fece il verso al figlio Elijah, allora quindicenne – oggi leader di una band, gli Inhaler – al tempo appassionato di Nirvana e Cobain.
Gli dissi che The Crystal Ballroom era un pezzo clamoroso, una canzone che avrebbero dovuto mettere in apertura di Songs of Innocence e lui ascoltò attento, serio. Poi gli chiesi qual era il segreto degli U2: come facevano a stare insieme dal 1976? Si prese qualche secondo, poi mi guardò e disse: «Il segreto è che non c’è nessun segreto. Appena ci chiudiamo dentro uno studio e iniziamo a suonare siamo ancora quei quattro ragazzini che suonavano nella cucina di Larry». Durante quel tempo, lunghissimo, seduto a quel tavolo, osservai attentamente Bono, cercai di capire dove finiva l’uomo e iniziava il divo, ma rimasi stupito dall’onda di energia che emanava: la sua passione era sincera, vera, reale, tanto da non sembrare una rockstar affermata da milioni di copie vendute, ma un cantante che sperava prima o poi di riuscire ad avere successo. Viveva quel momento come se fosse il suo palco, teneva banco come fossimo una banda di amici che ogni domenica andava a mangiare da quelle parti. Non era all’altezza del suo mito, era molto meglio, era un uomo che si godeva quell’istante di presente come non ci fosse altro.
Quando ci salutammo gli regalai il mio libro, spiegandogli il lavoro che avevo fatto sulle canzoni, cercando di capire il significato di ogni singola parola che aveva scritto nei dischi degli U2. Lui mi ascoltò attentamente, come se gli stessi rivelando chissà quale verità, e poi mi chiese di riflettere sul concetto contenuto proprio in The Crystal Ballroom, sui fantasmi del passato, sui nonni e sui genitori e su quello che erano stati, di quanto il passato tocchi il nostro presente, molto più di quanto noi pensiamo. «The ghosts of love in every face: pensa alla frase dei fantasmi in quella canzone. Ha a che fare con il passato e con i luoghi dove sono stati i nostri genitori». Ci salutammo e se ne andò da una porta sul retro, finendo davanti a una famiglia che passava di lì con il passeggino per la passeggiata domenicale e che strabuzzò gli occhi trovandosi davanti Bono. Una visione inattesa in un luogo totalmente assurdo.
Sono passati sei anni e ho pensato spesso a quel momento. A volte mi pare tutto talmente surreale da sembrarmi un sogno, un momento sospeso dentro un tempo che in realtà non è mai esistito. Torno spesso a Chiaravalle, non è lontano da casa. A volte mi spingo fino là in bicicletta con i bambini, li porto davanti alla locanda e gli racconto la storia di quella domenica lontana, di quando pranzai con gli U2 e di tutto quello che successe e, mentre la racconto, mentre cerco le parole, ecco che mi viene da sorridere, poi da ridere, perché sembra una di quelle favole che si inventano i padri, una di quelle esagerazioni che ci permettono di rendere migliore la realtà per andare avanti e dirci che va tutto bene. Invece è successo. E allora auguri Bono, grazie di tutto, e che la tua voce ci guidi ancora per almeno altri sessant’anni.
Andrea Morandi, giornalista, critico musicale, direttore HotCorn.com e autore di U2 – The Name of Love (Arcana)
Foto in evidenza © Kelly Eddington
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