Trent’anni di The Joshua Tree: un lungo viaggio
Quattro pellegrini vestiti di scuro camminano a fatica nella polvere sospinti dal vento. Un vento che è caldo come l’inferno di giorno, e freddo come il ghiaccio la notte.
Camminano da giorni nel deserto, in un luogo dove le strade non hanno nomi, e hanno attraversato città fantasma e desolazione. Posti che sembrano dimenticati da Dio e dall’uomo.
Davanti a loro appare, come un miraggio, un ponte sotto cui una volta correva un fiume. Ora ciò che rimane sono il letto arido e roccioso di quel fiume, e proprio quel ponte che pare costruito da mano divina.
Tutto intorno ci sono alcuni alberi di Yucca brevifolia che gli spagnoli chiamano izote de desierto e gli americani Joshua Tree.
I quattro pellegrini si fermano proprio all’inizio del ponte ma non sembrano stanchi, anche se sono in viaggio da molti giorni.
Quel ponte è il luogo dove volevano arrivare, al di là c’è altro deserto ma è l’altra parte: un mondo nuovo.
Trent’anni fa, il 9 marzo 1987, gli U2 pubblicavano The Joshua Tree, uno degli album capolavoro nella storia della musica rock.
I quattro irlandesi erano, in quel periodo, una band lontana dai problemi della soglia di rilevanza/irrilevanza che invece oggi sono molto presenti. Quella rilevanza a livello mondiale che comunque fu conquistata proprio grazie a questo album, che è una delle massime espressioni del loro sound cinematico.
Alla base di The Joshua Tree ci sono le radici americane, le radici della “terra dei liberi e delle opportunità”, incastrate tra la violenza e la bellezza degli States, la ricerca spirituale, il tema del viaggio materiale e metafisico, e la tematica del deserto.
“Mi innamorai della letteratura americana nel momento in cui capii quanto fosse pericolosa la politica estera degli Stati Uniti. Così iniziai a vedere due Americhe: quella mitica e quella reale. Per questo The Joshua Tree doveva chiamarsi The Two Americas. Ma poi vedemmo quell’albero spuntare in mezzo al deserto.” [Bono]
Un albero nel deserto significa acqua, significa vita. Nonostante il clima inospitale e la terra riarsa c’è una speranza lì da qualche parte, e va trovata.
Questo è il motivo per cui i quattro pellegrini sono in viaggio. Trovare una nuova vita, una nuova speranza. Qualsiasi cosa che sia nuova.
“Cielo di deserto / Sogno sotto un cielo di deserto / I fiumi scorrono / Ma presto si asciugheranno / Abbiamo bisogno di nuovi sogni stanotte.”
The Joshua Tree è un viaggio spirituale, mentale prima che fisico, è voglia di fuga e di liberazione da qualsiasi vincolo.
È voglia di correre in strade che non hanno bisogno di nomi.
In questo viaggio, Where The Streets Have No Name è l’apertura e la chiusura del cerchio, è l’alfa e l’omega.
Questa coppia di lettere, che sono la prima e l’ultima dell’alfabeto greco, sono usate anche nella simbologia cristiana come titolo di Gesù o Dio nell’Apocalisse di Giovanni.
“Io sono l’alfa e l’omega.” (versetti 1:8).
È solo la prima di molte citazioni bibliche.
Where The Streets Have No Name basterebbe da sola a definire il capolavoro che è The Joshua Tree, perché raccoglie in sé tutti quei sentimenti sparsi per le undici tracce dell’album.
Nella canzone fa da padrona la disperazione, divisa in parti uguali tra gioia disperata e desolazione più pura.
Tutto l’album è pervaso da immagini apocalittiche (che nella discografia degli U2 si sono poi concretizzate nel futuro elettrico e distopico di Zooropa e Pop), dalla sensazione che qualcosa stia per cedere, e per questo si ha bisogno di fuggire – e forse poi tornare – e di sognare ancora tutto più forte.
La tematica spirituale del viaggio e della ricerca è ancora oggi, dopo trent’anni, la parte più importante di The Joshua Tree.
I riferimenti politici delle altre canzoni sono ancora validi: basta pensare all’America di Trump.
Ecco quindi che Bullet The Blue Sky (dove viene citata la lotta tra Giacobbe e l’Angelo nel libro della Genesi: 32, 24-34), In God’s Country e Mothers of The Disappeared assumono nuovi significati.
Running To Stand Still parla di droga ed è assolutamente attuale, Red Hill Mining Town può essere trasposta ai tempi di oggi riguardo alle tematiche dello sfruttamento dei lavoratori.
Exit, oscura più che mai, potrebbe essere stata scritta anche oggi.
I tormenti amorosi e spirituali di With Or Without You sono un classico senza tempo, come eterno, o quasi, è anche la ricerca spiriturale cantata in I Still Haven’t Found What I’m Looking For.
Le molte b-sides dell’epoca sono ulteriore testimonianza di quanto monumentale è l’opera degli U2: Wave of Sorrow, Desert of Our Love, Race Against Time, Walk To The Water, Luminous Times (Hold On To Love) e gli altri lavori splendono di luce propria.
Su Luminous Times (Hold On To Love) vanno spese due parole in più, perché questa canzone fa da ponte tra With Or Without You e All I Want Is You, andando a creare una sorta di trilogia amorosa e “dantesca”: queste tre canzoni rappresentano un lungo cammino di redenzione e purificazione, grazie all’amore, tra Inferno, Purgatorio e Paradiso.
All’Inferno c’è il tormento che sembra eterno (With Or Without You), nel Purgatorio inizia il cammino di purificazione e si verifica l’accettazione dell’amore, con Bono che arriva a dire “Ti amo perché ne ho bisogno / Non perché ho bisogno di te” (Luminous Times). Alla fine di questo percorso c’è il Paradiso, dove sicuramente non mancano le difficoltà, che tuttavia verranno superate grazie alla maturità dell’amore che sopravvive tramite, e nonostante, tutte le promesse fatte e infrante da quando si nasce fino alla fine della vita (All I Want Is You).
Tutto ci riporta ancora a Where The Streets Have No Name. Alfa e omega.
Come dicevamo, tutto in questa canzone è disperato, il dolore è disperato, la stessa gioia è disperata.
La prima canzone è anche l’ultima.
Tutte le immagini sono ambivalenti, e si percepisce che l’equilibrio di gioia e disperazione si regge proprio su quelle cose che si stanno sbriciolando, perché vecchie od usurate, e tra quelle nuove, che sono al di là del ponte che abbiamo visto all’inizio.
Filtra anche una radice di rassegnazione alla base di questa canzone. Rassegnazione al fatto che l’amore arrugginisca, nonostante continui ad essere ricostruito, e le città vadano in rovina; rassegnazione al dover andare via e fuggire, ma, paradossalmente, questa rassegnazione porterà a cose completamente nuove.
I quattro pellegrini riprendono a camminare ed iniziano ad attraversare il ponte. Sono impauriti da quello che potrebbero trovare, ma sanno anche che dall’altra parte c’è il mondo nuovo, e loro si sono messi in cammino proprio per rischiare tutto.
Fermarsi ora non avrebbe senso. La paura di vincere a volte può frenare come la paura di essere sconfitti.
“[…] Where The Streets Have No name era l’introduzione perfetta. È una delle idee più straordinarie, eguagliata soltanto da Break On Through (To The Other Side) dei Doors come offerta sacrificale al pubblico. Vuoi andare là? Perché se vuoi, sono pronto a venire con te, in quell’altro posto. Chiamatelo come volete, un luogo dell’anima, un luogo immaginario, dove non ci sono limitazioni.” [Bono]
Gli U2 sono il nostro Joshua Tree e noi fan siamo milioni di rami che lo compongono.
Gli U2 hanno attraversato quel ponte e noi abbiamo scelto di seguirli perché, forse, era l’unica cosa che potevamo davvero fare.
“And when I go there
I go there with you
(It’s all I can do)”
Tutte le citazioni della band sono tratte da U2 by U2 di Neil McCormick e U2
Per ulteriori approfondimenti: Spettakolo.it: Abbiamo ancora bisogno di nuovi sogni… tanti auguri The Joshua Tree
Foto in evidenza © Anton Corbijn
Tags: #U2NewsIT, Adam Clayton, Bono, Larry Mullen, The Edge, The Joshua Three, The Joshua Tree 30th Anniversary, U2, U2 The Joshua Tree Tour 2017