Bono ricorda Lou Reed
Bono ha ricordato in un’intervista a Rollingstone il grande cantante da poco scomparso Lou Reed.
Il mondo è più rumoroso oggi, ma non quel tipo di rumore del quale si vuole alzare il volume. Il mondo delle parole è un po’ più tranquillo e un bel po’ più stupido, il mondo della musica non solo come acuto.
Lou Reed ha fatto musica fuori dal rumore. Il rumore della città. Grandi camion sferraglianti su buche, il respiro pesante di metropolitane, il rombo del terreno, il rumore bianco di Wall Street, il rumore rosa del vecchio Times Square. I neon ammiccanti del centro, il suo massaggio e tatuaggi, i suoi bar e osterie, le puttane e i cartelloni che compongono la vita della grande città.
New York City è stata per Lou Reed quello che Dublino è stato per James Joyce, l’universo completo della sua scrittura. Non aveva bisogno di allontanarsi, lì era più che sufficiente per il suo amore e le sue canzoni d’odio. Dal Metal Machine Music di Coney Island baby, al suo lavoro negli Velvet Underground fino ai Metallica, la città che ha dedicato la sua vita era la sua musa più di ogni altra cosa. Fino a che Laurie Anderson entrò nella sua vita 20 anni fa.
Ci siamo incontrati all’Amnesty International Conspiracy of Hope Tour nel 1986. Parlava del suono della chitarra con the Edge, il suono della moto con Larry, di James Joyce con me e, se non ricordo male, di relazioni con Adam. In una occasione, in perfetto stile Lou, ha descritto di come fu infastidito per aver accettato di prestare una delle sue moto alla sua ragazza. Ha avuto un piccolo incidente, danneggiando la lowrider in modo da sconvolgerlo chiaramente. Gli ho chiesto come stava la sua ragazza dopo l’incidente. Lui mi guardò e disse seccamente: “Bono, puoi sostituire la fidanzata.”
Il suo umorismo impassibile era facilmente frainteso come maleducazione, e Lou era felice di quel malinteso. Nel registro dell’hotel, frequentato dal cantante, il suo pseudonimo all’epoca era Raymond Chandler. Gli ho chiesto cosa gli piaceva circa il genio noir del romanzo poliziesco. “Mordere umorismo e concisione,” rispose. Gli ho chiesto un esempio: “‘Quella bionda sarebbe più bella con un labbro spaccato.’ Non ci sarebbe niente di meglio. “ Si mise a ridere ad alta voce.
Lou esemplificò l’idea di arte come la scoperta della bellezza in luoghi inaspettati. Una delle sue canzoni più famose, “Perfect Day” è anche più perfetta essendo la storia un tossicodipendente di eroina che attraversa il parco nel caldo sole, completamente separato dai problemi che gli hanno causato la sua dipendenza. È stato cantato in ogni maniera da voci famose, incluso la mia ed i cori di bambini da quando fu scritta nel 1972. Non manca mai di darmi qualche tipo di dolore nell’ultima riga: “Stai andando a raccogliere solo cioè che hai seminato, incurante del freddo ghiacciato.
Transformer è stato l’album che mi ha acceso quando è stato rilasciato nel 1972. Io e il mio migliore amico Guggi ci sedemmo per ore ad ascoltare queste storie di strada, pensando di sapere cosa fosse a camminare sul lato selvaggio. Avevamo 12, 13 anni.
La trasformazione è al centro del lavoro migliore di Lou Reed: capacità o incapacità di trasformare le persone. Sappiamo che trasformare il dolore in bellezza è il segno di un grande artista e capiamo che la sfida è al centro del romanzo, ma siamo sconcertati da come le canzoni di Lou Reed sono così nell’aria. Palloni di metallo ed elio, mai appesantiti dalla loro materia, umorismo al vetriolo sempre dietro l’angolo. Magia e perdita, anzi. Lou Reed era un alchimista, trasformava i metalli vili in oro, metallo pesante in canzoni disciplinate come se provenissero dal Brill Building, perché questo è il mondo in cui Lou ha iniziato.
Lou è nato da due fattori che non possono essere sottovalutati. Uno: i talenti dei suoi compagni della band nei Velvet Underground, che ha poi influenzato praticamente ogni gruppo che aveva un piede negli anni Settanta. (Testimone la nostra “Running to Stand Still”.)
Due: lo scrittore di racconti Delmore Schwartz. Lou tornava a parlare di questo argomento più volte con me e mi ha fatto leggere In Dreams Begin Responsibilites (che ho fatto e che faccio.) Mi ha anche donato una raccolta di saggi: The Ego Is Always at the Wheel. Lui mi ha dato anche una collezione di poesie di Seamus Heaney un paio di mesi fa. La nostra ultima conversazione fu un semplice grazie.
La musica è eterna. La sua anche senza di lui. E’ stato meraviglioso vedere Lou riunito con Bob Ezrin al loro Berlin show del 2006, e di sapere che il suo amato vicino di casa Julian Schnabel è stato lo scenografo e ha fatto le riprese. Penso che sia stato originariamente pensato per essere un’opera rock per il palcoscenico, piuttosto che per lo schermo. Forse quello che accadrà ora, è che il mondo digerirà questa grave perdita che abbiamo appena appreso.
E’ troppo facile pensare a Lou Reed come una creatura selvaggia che ha scritto canzoni che parlano di eroina nelle classifiche pop, come un decadente Lounge Lizard dalla Andy Warhol Factory. Questo non avrebbe potuto essere più lontano dalla verità. Era riflessivo, meditativo ed estremamente disciplinato. Prima dell’epatite che l’ha catturato, Lou era in ottime condizioni fisiche. Questo è quanto mi rimane di lui, una figura ancora nell’occhio di un uragano metallico, un artista che tira forme strane dal vuoto informe che è la cultura pop, un cantautore che tira fuori melodie della dissonanza di ciò che Yeats chiama “questa lurida marea moderna”e, sì, la sua veramente grande espressione penetrante, con tanta commedia che danza intorno a quegli occhi penetranti.
L’universo non sta ridendo oggi.
Fonte | rollingstone.com